L’Abbazia di Praglia e Le Opere d’Arte Veneziane nella Seconda Guerra Mondiale
L’Abbazia di Praglia e il Salvataggio delle
Opere d’Arte Veneziane Durante la
Seconda Guerra Mondiale
Durante la Seconda Guerra Mondiale, dato il rischio di bombardamenti,
Venezia tenta di mettere al sicuro quanti più tesori possibile e decide
di inviare a Praglia tre fra le sue opere d’arte più rappresentative
Nel contesto dei Colli Euganei uno dei topoi sul piano storico-culturale è sicuramente costituito dall’Abbazia benedettina di Praglia, la cui basilica è dedicata alla Beata Vergine Maria Assunta, nota ben oltre i confini nazionali per il suoi laboratori di restauro dei libri antichi. Il primo nucleo di benedettini si insediò sulla piana di Praglia nel 1112 sotto la guida del nobile Umberto, conte di Vicenza. Nel 1232 l’abate di Praglia, padre Lanfranco, viene investito dell’autorità (contea) su Brusegana, Tencarola, Villa del Bosco (oggi San Biagio) e Tramonte. In seguito le proprietà fondiarie dell’Abbazia si estendono ulteriormente quando il 3 aprile 1154 Guglielmo Da Limena vende all’abate per 150 lire veronesi tutta la pregiata terra della contrada Costa, oggi Monte della Madonna, con relative case, aie, aree boschive e di pianura. Il 25 luglio 1172 Ardizzone da Rovolon dona al monastero diversi lotti confinanti con quelli precedentemente acquisiti per cui le fonti riportano come l’Abbazia possedesse 154 campi di bosco in zona Rovolon.
Già a partire dal 1307 Il monastero è riconosciuto sotto la protezione di Padova e nel 1448 l’Abbazia viene unita alla Congregazione di Santa Giustina. Ma tornando alle proprietà dei benedettini non è comunque chiaro se le stesse si estendessero fino alla vetta del Monte della Madonna, posto che il primo documento scritto sul Santuario ivi ubicato risale ad epoca successiva: il 25 settembre 1495.
Gli storici ipotizzano pertanto che il Santuario, probabilmente eretto dopo la peste degli anni 1405 e 1436, in quanto di pertinenza della parrocchia di Carbonara, soggetta a Praglia, sia stata “indirettamente” acquisita dai monaci. Dal 1797 i padri fondano una scuola gratuita per i contadini locali confermando come la regola dell’ordine ora et labora comporti delle rilevanti implicazioni sull’attività agro-economica dell’area. Risale allo stesso anno anche l’istituzione di un “Collegio per giovani nobili” la cui cattedra di retorica viene affidata a Giuseppe Barbieri (Bassano 26 dicembre 1774 – Padova 9 novembre 1852) poeta, retore e latinista che proprio a Praglia aveva ricevuto gli ordini sacri. Negli anni 1806 e soprattutto 1810 la legislazione napoleonica come è noto sopprime gli ordini ecclesiastici spogliandoli dei beni produttivi e delle proprietà artistiche con inestimabile danno, nel caso di Praglia, in primis per la biblioteca creata nei secoli precedenti. Nell’estate del 1812 gli ultimi padri ad abbandonare Praglia furono Benedetto Maggi e Benedetto Fiandrini, quest’ultimo particolarmente noto come architetto, autore del chiostro di San Vitale a Ravenna, Vicario parrocchiale di Praglia membro della Soprintendenza per i Beni Artistici e progettista del capitello sito nell’omonima piazza di Torreglia per custodire la statua della Madonna del Rizzi commissionata dal latinista Jacopo Facciolati.
A seguito della Restaurazione nel 1834 l’Abbazia viene ripristinata salvo poi subire una seconda soppressione, nel 1866-67, ad opera dello Stato Italiano: Re Vittorio Emanuele II ne demanializza i beni per poi alienarli così da far fronte al grave disavanzo pubblico per ovviare al quale successivamente verrà anche introdotta l’odiosa tassa sul macinato. Basti comunque pensare che fino agli anni ‘50 del ‘900 l’area prospicente l’Abbazia è ancora soggetta al demanio militare. Nel marzo del 1954 le cronache infatti riportano: “Non verrà ulteriormente utilizzato il poligono adiacente alla Badia di Praglia. Le esercitazioni, estese alle bombe a mano e ai mortai, disturbano fortemente la pace del Monastero e le attività inerenti, come l’Istituto per il restauro del libro, la Biblioteca, l’Osservatorio meteoroastronomico”.
Dopo l’intervento statale di fine ‘800 l’Abbazia di Praglia progressivamente decade fino a trasformarsi in una sorta di involucro vuoto. La proprietà viene suddivisa in tre parti: monumentale, militare e alienabile (chiostro doppio, refettorio grande e vecchio appartamento dell’abate). In tale contesto decisiva appare la mediazione dello scrittore e senatore Antonio Fogazzaro (Vicenza 25 marzo 1842-07 marzo 1911) che così sintetizza la situazione: “Assassinio vile d’un vecchio glorioso, delitto consumato nel silenzio, col favore della solitudine!” . Il 3 giugno 1900 i banchieri Caneva e Mion acquistano la parte alienabile per lire 22.600 superando l’offerta dei benedettini nel frattempo rifugiatisi a Dalia in Istria.
L’intento degli acquirenti è duplice: o dar vita ad una fabbrica tessile o demolire tutto per vendere il materiale. La Provvidenza (o per chi non crede la fortuna) vuole però che i banchieri accettino, il 6 novembre successivo, lire 30.000 nel frattempo raccolte dai benedettini che così salvano l’Abbazia. Il 26 aprile del 1904 i padri ritornano a Praglia e comincia la lunga e faticosa ricostruzione. Trascorsi quattro decenni dagli eventi cui si è fatto cenno in Europa imperversa la Seconda Guerra Mondiale e le forze di liberazione dal giogo nazifascista avanzano da est con l’Unione Sovietica e da sud e ovest con gli Angloamericani. Questi ultimi in Italia adottano un metodo di combattimento tanto efficiente per i liberatori quanto devastante per i civili: prima i bombardamenti aerei colpiscono a tappeto i presidi nemici e poi si procede con le truppe di terra. Il prezzo di vite umane fra i civili sarà altissimo così come inestimabile risulterà il danno per le opere d’arte.
Si pensi, fra gli innumerevoli esempi possibili, all’Abbazia di Montecassino (15-18 febbraio 1944) o alla Chiesa degli Eremitani (11 marzo 1944) a Padova con gli affreschi del Mantegna. Va da sé dunque che ogni città, posto il rischio di bombardamenti, tenta di mettere al sicuro quanti più tesori possibile e Venezia decide di inviare a Praglia tre fra le sue opere d’arte più rappresentative: i quattro cavalli di San Marco, il bronzo del Leone di S. Marco e la statua di San Todaro (Teodoro) che uccide il drago. Per quest’ultima opera è bene chiarire che non si conoscono allo stato, diversamente che per i due bronzi, documenti fotografici che provino il soggiorno nell’area euganea. Un esplicito riferimento, soltanto scritto, alla statua di San Todaro ospitata a Praglia è contemplato nella rivista edita dall’ “Azienda di Cura” di Abano Terme nel maggio del 1956. Rimangono dunque dei dubbi. La spedizione delle opere avviene per via fluviale e successivamente via terra con speciali carri che giungono a destinazione mercoledì 2 dicembre 1942. La ragioni della scelta del luogo è intuitiva: l’Abbazia di Praglia sorge in un’area “periferica” ed è edificata (in primis la chiesa) su di un alto basamento di trachite protetta da bugnato. Quindi sotto il sagrato si sono potuti ricavare dei vani praticamente inespugnabili anche in caso di bombardamento. Ma per comprendere l’eccezionalità dell’evento di cui si narra passiamo in breve rassegna le opere giunte dalla laguna nel cuore dei Colli Euganei.
I Quattro Cavalli di San Marco L’opera in rame e in bronzo risale al II-III secolo a.C.. È di probabile origine ellenistica. Le fonti concordano nel ritenere che i cavalli, insieme con una quadriga, prima furono portati a Roma per onorare i trionfi di Nerone e Traiano e poi fatti posizionare nel grande ippodromo di Costantinopoli dallo stesso Costantino. Nel 1204 costituiscono il bottino di guerra della Repubblica di Venezia dopo il saccheggio durante la Quarta Crociata. Vengono poi esibiti, dal 1254, nella facciata della Basilica di San Marco. Nel 1797 Napoleone trafuga l’opera e la invia a Parigi per abbellire l’Arco di Trionfo.
I cavalli ritornano nel 1815 a Venezia, ora parte dell’impero austriaco, scortati dal capitano Dumaresq vincitore a Waterloo (18 giugno 1815). Durante la Grande Guerra negli anni 1917-1918 l’opera viene per sicurezza trasferita a Roma presso Castel Sant’Angelo. Infine, come ricordato, nel 1942 i cavalli trovarono rifugio, protetti da lastre di trachite, sotto il sagrato della chiesa dell’Abbazia di Praglia.
Il Bronzo del Leone di San Marco È un’opera complessa molto rimaneggiata nei secoli. Originariamente si trattava di una chimera di chiara fattura orientale (forse assira) fusa tra il IV e il III secolo a.C. Giunta a Venezia nel 12° secolo fu fatta posizionare in Piazza San Marco dal doge Sebastiano Ziani sulla sommità di una colonna di granito egiziano negli anni 1172-1177. Per rendere il bronzo più somigliante al leone alato, simbolo di San Marco Evangelista patrono di Venezia dall’828 circa, in tempi diversi viene inserito il Vangelo, si asportano due piccole corna dalla testa per coprirle con una criniera riccia, viene forse modificata la coda che originariamente terminava, essendo di una chimera, con la testa di una serpe. In epoca medievale si inseriscono le ali. Nel 1797 Napoleone ne ordina, come per i cavalli, la rimozione che cagiona una serie di fratture all’opera poi restaurata e ricostruita a Parigi per essere montata presso la Fontaine des Invalides. Nel 1815 gli austrici reclamano il bronzo per riportarlo a Venezia ma durante la rimozione per un errore (o per un sabotaggio secondo alcuni) a un lavoratore francese sfugge una corda e il bronzo cade frantumandosi in 20 parti. Il 13 aprile 1816 dopo i restauri di Bartolomeo Ferrari – che inserisce nuove ali, fa rifondere il Vangelo e la coda andati perduti – il leone svetta nuovamente sulla colonna. Non si hanno notizie se il leone sia stato messo al sicuro (come è probabile) durante la Grande Guerra. È certo invece che quando nel 1942 è inviato a Praglia le ali vengono svitate e con il bronzo i Veneziani spediscono anche un suo calco in gesso che i monaci chiederanno poi di trattenere come ricordo ma invano posto che la copia era già stata destinata alla Scuola di disegno dell’Accademia.
Statua di San Todaro (Teodoro) San Teodoro è il protettore di Venezia fino all’828 circa, prima della dedicazione della città a San Marco. La statua è posizionata, come la chimera, su di una seconda colonna di granito egiziano in Piazza san Marco. L’opera è un vero puzzle di materiali: marmo, pietra d’Istria, legno ricoperto di rame e ferro. Le varie parti risultano un assemblaggio di pezzi di altre statue antiche. Si rappresenta San Teodoro, munito di lorica (corazza) con scudo e lancia, che uccide il drago in sembianze di coccodrillo con muso canino. Tra le due colonne, di San Todaro e San Marco, venivano eseguite le pene capitali e in quanto “zona franca” si potevano svolgere attività illegali quali il gioco d’azzardo. Come per l’opera precedente non si hanno notizie se la statua sia stata messa in sicurezza (come è probabile) nel corso della Grande Guerra. Per l’arrivo a Praglia nel 1942 si rilevano, come anticipato, soltanto testimonianze scritte. Una volta giunte a destinazione e posizionate nelle “segrete” dell’Abbazia, le tre straordinarie opere veneziane sono prese in carico dalla Soprintendenza che per motivi di sicurezza vieta ogni tipo di visita e dispone di apportare ulteriori protezioni con steccati di legno. Ma i bronzi e la statua non rimangono nei Colli Euganei fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Si scopre infatti che nell’estate del 1944 a pochi chilometri di distanza, nella vicina Luvigliano, si era insediato, presso Villa Megardi-Benetazzo, il Comando della X Armata della Wehrmacht ancora oggi tristemente nota per l’Eccidio di Vallarega del 16 novembre 1944. L’esistenza di un obiettivo strategico di primaria importanza per gli Angloamericani pone dunque in serio pericolo anche le opere custodite nella vicina Praglia che ormai si trova in piena zona di guerra. Si decide dunque di imbragare nuovamente i bronzi e la statua per partire, venerdì 14 luglio 1944, alla volta di Venezia. L’opzione, letta a posteriori, si rivela corretta nella sostanza se è vero che nove mesi dopo, il 20 aprile 1945, Luvigliano e Villa Megardi-Benetazzo subiscono un pesante bombardamento. La travagliata storia delle tre opere si conclude dunque con un lieto fine: vengono riportate incolumi a Venezia, riposizionate alla fine della guerra nelle loro sedi e progressivamente sostituite, dalla metà degli anni ‘80 del ‘900, con delle copie. Oggi godono di un meritato riposo nei musei veneziani.
LA TERZA COLONNA
Sono cominciati a febbraio scorso le indagini tomografiche per la ricerca della mitica terza colonna dI Piazza San Marco. Oltre alla colonna con il leone e a quella di san Tòdaro ne esiste una terza, finita in fondo al mare nel 1772. L’esplorazione, non invasiva e a carico di privati, si focalizza tra il Ponte della Paglia e la riva di Biblioteca Marciana, con l’installazione di alcuni sensori elettrici nelle fessure dei masegni per dimostrare se la colonna esiste davvero. La ricerca potrà fornire nuovi e utili elementi di conoscenza, dal punto di vista archeologico, dei fondali di fronte al Molo e forse altri reperti.potranno emergere dalla ricerca.