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Al Tempo del Barba Gigio

La Capretta del Barba Gigio

Al Tempo del Barba Gigio

Quanta allegria allora in un’ombretta di vino. Quanto amore per la terra,
per le vigne e per gli alberi. E si rideva volentieri, volendosi bene, contenti di vivere nelle nostre colline

Tanto tempo fa, nel nostro bel dialetto il fratello del nonno si chiamava “Barba”. Anche noi in famiglia avevamo il nostro Barba fratello di nonno Giacomo e si chiamava Gigio. Naturalmente il diminutivo di Luigi. Mi ricordo che quando si trovava tra le mani un bicchiere di vino faceva una faccia così contenta come se avesse vinto un terno al lotto. «Che bello!» diceva a volte alzandolo per vederlo bene in trasparenza. «Quanto ti voglio bene. Vorrei che tu fossi alto come il campanile di Lozzo». Poi sentivamo dire in famiglia, che il campanile di Lozzo, cioè del paese poco lontano dal nostro, era il più alto dei nostri dintorni. Di vino però in quel periodo ce n’era poco, perchè anni prima (così ci diceva papà) le vigne erano morte tutte o quasi. Con le poche rimaste si faceva un pò di vino nero da tenere per il giorno dell’Assunta, il 15 di agosto, la data della sagra del nostro piccolo paesetto. Così quel poco, veniva messo dentro una botticella di legno, proprio da bere in quell’occasione, in cui venivano invitati anche alcuni parenti. Quando il vino era pronto, già messo nelle botti apposite poggiato sulle graspje, che noi chiamavamo graspaje, venivano versati un paio di secchi di acqua e ne usciva così la famosa “graspia” o “piona” che era  una specie di nemica. Mi ricordo che a volte gli porgevano un mezzo bicchiere mentre erano in cantina, per fargli assaggiare il vino nuovo, ma ap- pena assaggiato lui sputava di qua e di la facendo una bocca come se avesse bevuto chissà che cosa amara. «Non è mica buono il vino di quest’anno, Barba?» gli chiedevano ridendo. «Ma questo se tossego, altro che vino buono». Diceva scappando fuori dalla porta, blaterando una fila di improperi a voce sempre più alta. Per il Barba Gigio le persone più brave e buone erano quelle che gli offrivano qualche ombretta di vino e magari qualche pezzet- to di schissotto, un pane fatto in casa e cotto sotto la cenere. Lui era solito andare a filò nelle stalle di qualche vicino.

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Era nemico del freddo e in special modo della neve, sicchè quando la stagione si rinfrescava lui si metteva la sua vecchia “dimara” e non l’abbandonava per tutto l’inverno. Questa era una specie di soprabito leggero, che veniva chiamato anche “spolverino” o “zimarra”. Nelle sere fredde d’inverno, indossava la sua “vecchia zimarra” e via che andava a fare filò. Quando tornava a casa, non occorreva chiedergli com’era andata la serata, perchè da come lo si ve- deva soffiarsi sulle mani, un po’ arrabbiato dicendo «Brr.. che fredo, “madonnine”, che fredo». Voleva dire che non gli avevano offerto niente per riscaldarsi, neanche un’ombretta. «Guarda come tremo» diceva, facendo tremare le mani, come se avesse preso un grosso spavento. Noi capivamo che se era andata male a filò sperava che saltasse fuori qualche ombretta da qualche altra parte, per calmare la sua sete. Magari graspia? No, no, per carità, quella no! In casa si raccontava spesso di quella volta che tutta la famiglia al completo era andata a farsi la fotografia ricordo. In quel tempo era importante che ogni famiglia avesse la sua bella foto ricordo. Il Barba Gigio però non c’era andato con il pretesto di “tendere la casa”, farle da guardia insomma. «Andate pure tranquilli» aveva detto lui, «che qui ci sono io!». Dopo alcune ore (perchè allora erano tutti a piedi) arrivati a casa, trovarono il Barba più allegro del solito, come se avesse bevuto un’ombretta in più. Vino non ce ne era, perciò la cosa non si spiegava. C’era solo la botticella di vino per la sagra, ma quella era sigillata.

E così la storia finì lì. Quando c’erano altri lavori, lui si offriva sempre di restare a casa anche da solo. Non si capiva la sua generosità. Ma ecco che final- mente arrivò il giorno della sagra e si poteva perciò assaggiare e bere il vinello buono assieme ai parenti invitati per l’occasione. Ecco pronta la caraffa, e gira che te gira el canolin, il vino non veniva fuori. Ma era pronto l’altro sistema, cioè tirarlo fuori con la gomma. Ma di vino neanche una goccia. Cos’era capitato? Ormai la storia era chiara. Il Barba aveva forato con un piccolo trivelìn la pancia della botticella in un posto in cui nessuno lo poteva vedere e quando restava a casa da solo beveva di nascosto.

Poi aveva chiuso bene il buco con un turacciolo, in modo di poter tirare fuori ogni tanto un’ombretta di vino per consolare la sua solitudine. E un’ombretta oggi, una domani, la piccola botticella era vuota e asciutta. Ecco spiegata anche l’allegria del Barba nel giorno della fotografia e anche di quel giorno che era scivolato dentro la fontana e il non- no era andato a prenderlo con la cariola per por- tarlo a casa bagnato e “brombà”. Quanta allegria allora in un’ombretta di vino. Quanto amore per la terra, per le vigne e per gli alberi. E si rideva volentieri, volendosi bene, contenti di vivere con i nostri nonni. Non andava proprio bene al Barba la neve, neanche voleva sentirne parlare. Passavano a volte dei ragazzotti che sapevano di questa inimicizia tra il Barba e la neve, e se lo vedevano lo chiamava- no dicendo «Barba, la vien, la vien, ormai se qua la neve…». Come si arrabbiava lui, mentre invece loro scappavano via di corsa ridendo. C’è già odore di mosto nella mente anche se è appena passato il profumo del fiore dell’uva.

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Proprio così, magari tante persone non avranno mai sentito quanto sia buono l’odore dell’uva in fiore. Un profumo dolce ed aspro nello stesso tempo. Il Barba lo conosceva di certo, essendo nato in campagna ed essendo soprattutto amante dell’uva e del vino. Quanta allegria allora in campagna, specialmente durante la vendemmia, quando si sentivano i cori da lontano, dagli altri vigneti, perchè in quel tempo, la macchina per vendemmiare non esisteva di certo. Torniamo al nostro Barba, che tremava quando vedeva nell’aria le prime farfalle di neve. Diceva «non chiamatela, per carità, perchè allora viene giù ancora di più». E per non parlare della sua rabbia quando doveva pagare la tassa per i celibi… Questo però ce lo raccontavano i grandi. Ma vi voglio raccontare della sua capretta, che andava a pascolare attorno alla siepe. Lui le voleva bene, ma ogni tanto lei gli faceva qualche dispetto. Si, proprio così, perchè si sa, e capre sono dispettose. C’è un proverbio che dice «Dispettoso come na cavara». Un giorno mi sono accorta che era sparito il sapone per lavare la biancheria. Il sapone era ovviamente fatto in casa con le ossa del maiale ed una polverina comprata in farmacia. Si faceva bollire il tutto e una volta raffreddato veniva tagliato a pezzi. Siccome non si poteva comperare, ogni famiglia se lo faceva in casa. Ma torniamo al giorno in cui era sparito dalla nostra casa. Cerca di qua, cerca di la, ad un certo punto si sente il Barba chiamare ad alta voce «Vegnì qua, vardè che roba, la cavara fa le bolle de saon». La capra non si capiva per quale dispetto, aveva mangiato il pezzo di sapone e così belando con il suo “bee bee”, mandava fuori dalla bocca le bolle di sapone che volavano in aria. Per noi piccoli era un’allegria a non finire, da aggiungere ad altre semplici cose, che sembrano piccole ed insignificanti per gli altri, ma che ci rendevano la vita contenta ed allegra. Un’allegria che purtroppo, tra i bambini di oggi, sembra quasi sparita.

Gemma Bellotto