Alla Scoperta dei Paesaggi Segreti del Colle Rocca
Alla Scoperta dei Paesaggi,
i Segreti del Colle Rocca
Gallerie vere, nel maggiore e minor colle monseliciani, si sono scavate durante i tragici giorni della seconda guerra mondiale: ai piedi della Rocca, volendo creare un capace rifugio per proteggere la gente minacciata dalle continue incursioni aeree alleate, e nel cuore del Monte Ricco
Dovendo tradurre in scala grafica quella parte di testimonianze orali che anno dopo anno ho ascoltato su passaggi segreti, sotterranei e gallerie snodantisi addirittura per chilometri nel sottosuolo cittadino, il diagramma avrebbe picchi incredibili rispetto ad altre dicerie e, di certo, s’accrescerebbe e potessi, per magia, interrogare i vecchioni dei secoli trascorsi. Due i punti di convergenza: il Torrione federiciano e l’aristocratico plurisecolare agglomerato monumentale detto Ca’ Marcello o Castello d’Ezzelino, col medievale sistema difensivo collegato, grazie al vicolo Tre Torri, con la sconsacrata chiesa di San Paolo e la Torre di piazza o delle ore, anche se, a dire il vero, era comunque il Torrione a godere d’un fascino irresistibile. La ‘maestosa torre’ sarebbe stata innalzata quale omaggio dei monseliciani all’imperatore tedesco Ottone I, dipanando la misteriosa sigla DONI, incisa sulla levigata parete a mezzodí, in Divo Ottoni Nostro Imperatore (!), come pretendeva la voce popolare raccolta dal Salomonio e assecondando per di piú la «antichissima tradizione che ivi síasi il passaggio ad un gran sotterraneo, che conduceva per diverse vie fuori del Castello». La stessa cosa ribadiva il nostro ottocentesco abate Francesco Sartori, ‘cronistorico’ un po’ zoppicante e narratore: «Da questa torre dícesi muovesse una via sotterranea e scendesse fino al piano, non solo a scampo della guarnigione, ove non avesse piú speranza di salvezza, ma anco per comunicare segretamente con ogni altro punto della fortezza». Sono affermazioni, queste, che sembrarono plausibili addirittura a Nino Barbantini, il valido esperto a cui Vittorio Cini affidò il coordinamento dei restauri di Ca’ Marcello avviati nel 1935 e curatore della monumentale monografia a essi dedicata dopo la conclusione dei lavori (1940). «Che il Castello di Monselice possedesse gallerie sotterranee è stato ripetuto insistentemente; e si ha ragione di presumerlo. L’inizio di una di tali gallerie [confuso con un pozzo, una fognatura o qualcosa di simile, lo si è capito dai recenti restauri] si apre in cima al colle nel fondo del mastio, ed è stato risalito anche di recente per qualche metro finché i detriti non hanno impedito di andare oltre». Gallerie vere, nel maggiore e minor colle monseliciani, si sono scavate invero solo durante i tragici giorni della seconda guerra mondiale: ai piedi della Rocca, volendo creare un capace rifugio per proteggere la gente minacciata dalle continue incursioni aeree alleate, e nel cuore del Monte Ricco. Il comando locale della Luftwaffe l’aeronautica germanica, si era insediato in vetta, nel grande edificio dei Cini, e fece costruire un lungo tunnel rivestito di cemento armato muovendo dai paraggi della villa. Qui, dietro una porticina mimetizzata e scendendo sessanta gradini, ci si trova di fronte a una biforcazione, con due gallerie che sbucano ai lati del colle, vie di fuga in caso d’emergenza, rifugio d’uomini e deposito di munizioni collocate allora in grandi nicchie ricavate ai lati del tetro budello.
Ripensando ai favoleggiati sotterranei, le ragioni del sorgere di simili fantasticherie possono essere molteplici. Il fatto, per esempio, che la diffusa edificazione alle pendici della Rocca ha seguito il naturale (?) andamento terrazzato del declivio, richiedendo comunque apprestamenti di sostegno con pseudo-gallerie e grosse muraglie. Lo insegna esemplarmente la Rotonda, lo slargo che dietro il Duomo Vecchio si apre al panorama urbano e alla campagna intorno: edificata all’inizio del XVIII secolo sul vuoto e sostenuta da una vera e propria grande ‘navata’ in trachite, prende luce dal grosso occhio centrale, armato di salde inferriate: un ‘pozzo’, nella popolana fabulazione, dove i romani gettavano i cristiani da martirizzare! In secondo luogo non è da escludere che nel medioevo esistessero veramente brevi camminamenti sotterranei e rifugi interrati o scavati nella viva roccia: la cripta stessa del San Paolo, incuneandosi tra le radici collinari, si presta alla coinvolgente suggestione, affiancata pure da un paio di petrosi pertugi ‘segreti’, strette vie d’uscita o di entrata abbandonate, che ben si prestano a ospitare, di tanto in tanto, i ‘fantasmi’ trànsfughi, al dire della vox populi, dal funereo Palazzo d’Ezzelino. Va da sé che ci voleva davvero un bel coraggio per dare credito a una specie di casalinga e rudimentale ‘metropolitana’ pedonale che avrebbe unito le periferiche Ca’ Barbaro e Sant’Elena, antico possesso dei nobili Cumàni (gelosi custodi delle reliquie di S. Sabino), alla Rocca passando per Ca’ Oddo e Marendole. Qui sarebbe sboccato, proveniente da Baone, il paventato cunicolo delle ‘Purghe’ difeso da mille serpenti; tuttavia potremmo invocare, in proposito, un travestimento favolistico sí, ma straordinario e illuminante se generato da una realtà tanto misconosciuta quanto pregna dal punto di vista storico: le ‘Purghe’ altro non sarebbero che la dialettale trasposizione, giuntaci per via orale, di pírgos, nella lingua greca ‘castelletto’, minime fortificazioni alzate sui rilievi collinari in forma di corona, plausibilmente dai bizantini, a ulteriore difesa del castrum monseliciano contro goti e longobardi. L’interminabile galleria infatti sfociava pure nei pressi della ‘priàra de San Pòlo’, la cava di pietra detta di San Paolo, e, circuitando il minor colle, presso il silente San Tommaso, cappella d’una curtis monacale, di una vasta azienda agricola, attestata fin dal IX secolo. E i vecchi fabulanti erano mentre il cunìcolo, rischiarato da fiaccole e lucerne, s’empiva d’un fumo acre e irrespirabile. A un tratto la minuscola processione si fermò di colpo. I piú coraggiosi, che camminavano davanti, si erano bloccati impietriti dal terrore. Un’orribile testa, che ostruiva mostruosa il passaggio, li fissava terribilmente, mandando grida inumane e roteando i grossi occhi fiammeggianti. La fuga, precipitosa e affannata, riportò sulla piazza i malcapitati, che si infilarono di corsa in San Paolo a render grazie per lo scampato pericolo. E cosí, da quella volta, nessuno ha piú avuto l’ardire d’avventurarsi nella tana del drago.
Chissà se è ancora vivo o se si è consumato come tutte le cose di questo mondo». Cancellata dalla mente l’incredibile apparizione, cosa resta di tanto discorrere intorno a passaggi nascosti e sprofondanti gallerie? Poco o nulla, se non il concreto segnale, fantasticamente interpretato cosí convinti della sua esistenza che armeggiavano sopra e attorno alla Rocca per scoprirne i resti, gli ingressi misteriosi, vantandosi prima o poi d’aver individuato ciò che cercavano. Per quanto mi riguarda, in realtà, ho dovuto constatare che se mi è stato abbastanza facile reperire molteplici e allettanti tracce delle folcloriche dicerie diffuse tra le frazioni di Ca’ Oddo e Marendole o attorno al Monte Ricco, anche nella parte arquesana, dal centro storico ho ricavato assai meno, forse perché svuotato da due o tre generazioni d’autoctoni abitatori. Qualcuno però rammentava un’impresa davvero eccezionale: l’edificazione delle Sette Chiesette in soli sette giorni, a dispetto quasi di Roma, dei suoi sette colli e delle sue sette Basiliche giubilari; ma una vecchiotta, la Giulietta, l’ultima venditrice di zoccoli caserecci in piazza Ossicella, mi svelò il segreto che nascondeva, timorosa, fin da bambina. «Una volta tutti sapevano che il Castello, la Torre di piazza e il Torrione erano collegati da gallerie profonde anche venti metri e ci fu chi non resistette alla voglia di esplorare il percorso abbandonato, mentre gli amici sconsigliavano di farlo, impauriti per quanto avevano sentito narrare. Un bel giorno una piccola compagnia si decise e penetrò da un pertugio nascosto nella Torre. Gli scalini, scivolosi e ammuffiti, scendevano sempre piú in basso, dalla feconda immaginazione della gente, dei fili che stringevano in salda unità il Mons Silicis, col ‘castello’ e la rocca millenaria, al suo vasto territorio atesino, fitto d’acquitrini stagni boschi e paludi fino a quando la bonifica veneziana non ne impose la radicale trasformazione. C’erano sí punti di transito, vie d’acqua, strade arginali, ‘chiusure’ e spazi dossivi coltivati, retaggio magari di insediamenti romani e preromani: qui i longobardi, i franchi e i feudatari da essi discendenti innalzarono isolate torri di difesa, terrapieni e palizzate o cinte rudimentali attorno a cappelle, a fattorie-magazzino, a minuscoli complessi agricolo-monacali. Poi le comunità presero a fiorire, s’intrecciarono, si impinguarono d’immigrati montanari, di pastori e artigiani, creando la mossa geografia umana che ha caratterizzato tutta la Padovanabassa. Piú che Este e Montagnana, nell’età di mezzo fu Monselice a raccoglierne l’eredità, proponendosi quale centro maggiore, la civitas di rango, sede di giudici e di conti, camera speciale dell’Impero germanico fino ai tempi d’Ezzelino III e delle signorie… Ma questa è un’altra storia, da riscoprire e da raccontare.
Roberto Valandro
Lettura consigliata:
R. Valandro, C’era una volta la San Paolo.
Storia e storie di una cappella dalle radici millenarie,
L’Officina di Mons Silicis 17, Monselice 2011.