Caro el me Vin
Caro el me Vin
Quando tornavo dalle vacanze, dov’ero stata ospite di qualche parente, ricordo che papà mi prendeva per mano e mi accompagnava nel vigneto. «Guarda che bel raccolto abbiamo quest’anno» mi diceva, «Guarda come sono rossi i grappoli!». E mentre prendeva tra le mani un grosso grappolo d’uva, posandolo delicatamente tra le mie mani gli brillavano gli occhi dalla gioia. A volte penso che tanti non sappiano quanto sia bello essere nati in campagna, in mezzo alla natura. Non sanno la gioia di ascoltare i canti delle cicale, dei grilli ubriachi di luna, degli usignoli sui ciliegi in fiore. Non sentono i profumi che vanno nell’aria in ogni stagione. Quelli dei fiori, del fieno, dell’erba appena tagliata. Ma il più importante che si avverte, specialmente nelle chiare notti di luna settembrine è l’odore del mosto che bolle nei tini e va girando nella brezza notturna, accolto dagli animi più sensibili, come dice il grande poeta “un miele per l’anima”.
La mente mi porta ai discorsi dei grandi che mi raccontavano quanto a me piacesse l’uva fina da piccola. Me ne mettevano un chicco nel succhiotto e io lo succhiavo beatamente. Camminavo appena quando mi trovarono a beccare l’uva più vicina, come una piccola gallinella. «Sputa» diceva la mamma, «è ancora cruda!». «Si mamma» ripetevo io «ùa ciua, tutto ciùo», ma intanto mangiavo beata. Noi tre fratelli giocavamo sempre nel vigneto, sicchè sentivamo il crescere dell’uva di ogni stagione. Ecco che in primavera, al primo risveglio dei campi, uscivano dai tralci delle gocce che al riflesso del sole sembravano perle, lacrime vere. «Papà, perchè le vigne piangono?» chiedevamo noi. «Ma è un pianto di gioia!» rispondeva lui. «Vedi, se un tralcio non piange, vuol dire che non ha retto al gelo e la vite diventerà secca, senza vita». Noi piccoli aspettavamo impazienti l’arrivo dei grappoli maturi, osservando curiosi il mutamento fin dal fiorire dell’uva. Quando lungo i filari si sentiva un odore agro-dolce voleva dire che l’uva era in fiore. Ogni piccolo grappolo aveva i suoi minuscoli fiorellini e sapevamo che ognuno di essi sarebbe diventato un chicco d’uva.
Arrivata la stagione dell’uva matura e della vendemmia tutti lavoravano alla raccolta. Si sentivano da lontano dei cori di antiche canzoni. Noi piccoli eravamo intenti ai nostri giochi, correndo a piedi nudi attorno al vigneto, ascoltando sotto i nostri piccoli piedi i baci infuocati della terra. Anche le libellule dalle grandi ali trasparenti seguivano in volo i nostri giochi. Ecco che i vendemmiatori, una volta riempiti i cesti più grandi, chiamati “sisti da staro”, li portavano su dal campo, a due a due col “bigòlo” sulle spalle. Versavano poi l’uva dentro delle grosse ceste con due manici ai lati, chiamate “corbe”, ed ecco arrivare il momento del “follare” l’uva o meglio la pigiatura, dentro dei grandi tini. Non c’erano ancora le macchine moderne e così, due tre uomini, a turno, pestavano l’uva con i piedi, avendo prima arrotolato i pantaloni fin sopra le ginocchia. Noi seguivamo ogni gesto, assaggiando con un dito di nascosto il primo mosto, mentre gli uomini nel tino saltavano quasi a tempo di ballo di Mazurca. Li attorno l’allegria era proprio di tutti!
Che buono, che dolce, il primo mosto, sembra miele! Intanto arrivava la mamma con un pentolino, per riempirlo di mosto dal quale, dopo averlo bollito aggiungendo la farina, sarebbero usciti i famosi sùgoli, che tanto ci piacevano. Quella specie di polentina color del mosto, così profumata, era buonissima! Dopo la pigiatura venivano lavate le “graspe” dell’uva e quello che ne usciva si chiamava “vin piccolo” oppure “piona” o “graspia”. Sarebbe stata quella la bevanda di ogni giorno. Serviva anche per fare le verze in composta, una specialità di allora. Le vigne ormai spoglie portavano un poca di malinconia, ma le botti piene di buon vino rallegravano i cuori. Al pensarci ora, mi vien su dal cuore una mia ode al vino: Te vien su dal core de la tera come l’oro de na miniera grande… Caro el me vin – sangue de le me coline. Amico sincero, che mai sa dir busie. Ti te juti tuti, signori e poareti, a farghe desmentegar ogni malinconia.
Gemma Bellottto