Gli Alpini: una Storia Infinita
Gli Alpini: una Storia Infinita
“Alpini, forse la più fiera, la più tenace fra le specialità impegnate in ogni fronte di guerra. Combattono con pena e fatica fra le grandi Dolomiti, fra rocce e boschi, di giorno in un mondo splendente di sole e di neve, la notte in un gelo di stelle… Grandi bevitori, svelti di lingua, orgogliosi di sè e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente”
Il mito degli Alpini, così come si è diffuso nel tempo e lo si percepisce oggi, affonda le radici negli eventi della Grande Guerra, anche se, a vero dire, c’erano stati dei precedenti, alla fine del diciannovesimo secolo, come la partecipazione di un battaglione di cinquecento uomini contro il Negus Giovanni dopo l’eccidio di Dogali (1887-1888) e l’eroico comportamento delle batterie siciliane l’1 marzo 1896 nella battaglia di Adua. Quei reparti erano stati costituiti appena due anni prima a … fisionomia montanara (conducenti, pezzi, muli), appunto. Resistettero sin quasi al sacrificio totale. Infatti restarono sul campo otto ufficiali su dieci e 79 artiglieri e caporali su 135.
Da allora, da quell’evento bellico che vide anche l’assegnazione della prima medaglia d’oro alpina (alla memoria) nella persona del capitano Pietro Cella, proveniente da Bardi, paesino dell’Appenino Parmense, non c’è stata campagna militare che non abbia visto i soldati col cappello con la penna nera valorosi combattenti: dalla presenza in Cina durante la rivolta dei Boxer alla conquista della Libia, dalla Grande Guerra alla campagna d’Abissinia (1936), dal secondo conflitto mondiale (Grecia-Albania, Jugoslavia, Russia, Libia) alle operazioni internazionali più recenti compiute in àmbito Onu dall’Africa al Medio Oriente, ai Balcani.
Per non parlare degli interventi degli Alpini in congedo (che si considerano sempre tali, non degli ‘ex’) sul fronte della solidarietà, in patria e all’estero. Il Corpo degli Alpini era stato costituito nel1872 per la felice intuizione del capitano Giuseppe Domenico Perrucchetti, la cui idea era stata condivisa e realizzata dal ministro della guerra il generale Cesare Ricotti Magnani
E il mito, di cui si è detto, era nato nei combattimenti del primo conflitto mondiale, con azioni eroiche, con autentiche imprese, come testimoniato dalle pagine di storia patria recanti nomi quali Monte Nero, Ortigara, Monte Vodice, San Matteo – Gruppo Gavia (a 3.680 metri, la quota più alta dove in Europa si è combattuto), e quindi Pasubio, Passo della Sentinella, Castelletto (Tofana di Rozes), Adamello, e qui ecco il nome di un battaglione che ritroveremo un quarto di secolo più tardi in Russia: Edolo!
Per non parlare di un altro aspetto che pure contribuì alla nascita e all’affermazione del mito: quello delle portatrici carniche con Maria Plozner Mentil in testa. Donne di cuore, di coraggio, di fatica. Avevano un bracciale rosso con le stellette, recando sulle spalle quella tipica gerla delle genti di montagna ricolma di generi di conforto, ma anche di armi e munizioni, per i loro uomini, alpini; e su, a inerpicarsi lungo impervi sentieri, sotto il fuoco nemico. Maria Plozner Mentil venne colpita a morte il15 febbraio 1916 nella zona di Paluzza, medaglia d’oro alla memoria, e continua a rappresentare una sorta di mito nel mito, appunto, tant’è che nella sfilata conclusiva delle adunate nazionali “Scarpone”, le Penne Nere friulane recano uno striscione nel quale si legge: “Maria Plozner Mentil e le portatrici carniche sono qui con noi”. Segno di una memoria che non scema con il passar del tempo, perchè incisa profondamente nei cuori, oltre ad essere stata scritta nel gran libro della storia. Fra i personaggi e interpreti, per così chiamarli, del mito delle Penne Nere non possono essere ignorati Cesare Battisti e Fabio Filzi, ‘cittadini austriaci’, che pagarono il loro sentimento di italianità con l’impiccagione. Erano alpini!
Come lo erano gli eroici fratelli Natalino, Attilio, Santino, Giannino Calvi della Val Brembana, nella Bergamasca, due dei quali, Attilio e Santino, decorati di medaglia d’argento, caduti in battaglia – fra tutti e quattro meritarono undici medaglie al valor militare. È dunque di un respiro collettivo che si parla, non più Onon soltanto di “alpino”, bensì di “alpini”, presi nell’insieme. Non diversamente si può valutare infatti la capacità di sofferenza, di resistenza alle difficoltà insite nella guerra in montagna, per gente che in quella sofferenza, in quelle difficoltà ambientali e di clima era nata, cresciuta, vissuta. Con l’aggiunta di manifestazioni di valore e di solidarietà fra combattente e combattente rilevati a più livelli, in primis a quello di corrispondenti di guerra quali Luigi Barzini, Renato Simoni, Guelfo Civinini, per fare alcuni nomi. Nonchè di un grande narratore, poeta e giornalista straniero, cioè l’inglese Rudyard Kipling, presente in quegli anni sul fronte italiano, che ebbe, fra l’altro, a scrivere:
“Alpini, forse la più fiera, la più tenace fra le specialità impegnate in ogni fronte di guerra. Combattono con pena e fatica fra le grandi Dolomiti, fra rocce e boschi, di giorno in un mondo splendente di sole e di neve, la notte in un gelo di stelle. Nelle loro saltuarie postazioni, all’avanguardia di disperate battaglie contro un nemico che sta sopra di loro, più ricco di artiglieria, le loro imprese sono frutto soltanto di lingua e di gesti individuali. Grandi bevitori, svelti di lingua, orgogliosi di sé e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente”.
E senza dimenticare, fra i letterati stranieri presenti sul fronte italiano, I’Ernest Hemingway del celebre ‘A Farewell to Arms’ (“Addio alle armi”), nel quale, ad un certo punto, il disincantato autore americano scrive che solo gli alpini possono attaccare una certa posizione austriaca…
Ancora. A corroborare quel mito non mancarono le storiche tavole dell’illustratore Beltrame per la Domenica del Corriere, i disegni, i colori di Primo Sinopico (al secolo, Raoul Chareun di Cagliari), Vellani Marchi e Novello, personaggio quest’ultimo che rivedremo nel secondo conflitto mondiale nella campagna di Russia, e poi nei lager nazisti. E in tempi recenti il nostro contemporaneo Aldo Di Gennaro, al quale si deve l’illustrazione del famoso salto del tenente Cornaro. Episodio che si può così riassumere, all’insegna di una parola: “impossibile”! Siamo nel 1896 in una esercitazione e sulla linea di confine fra Italia e Francia, Jacopo Cornaro, del 2° Alpini, si trova diviso da un gruppo di ufficiali dei Chasseurs des Alpes che stanno consumando il rancio. Stappando una bottiglia di champagne lo invitano a raggiungerli per brindare insieme. Se non che, italiani e francesi sono divisi da un profondo burrone largo cinque metri. Impossibile? Quella parola, che non esiste nel vocabolario delle Penne Nere, è ovviamente ignota anche a Cornaro, che, in tenuta di marcia, zaino affardellato in spalla, prende una lunga rincorsa, salta il burrone, presentandosi pimpante agli stupefatti colleghi francesi, pronto per il brindisi. Sorseggiato lo champagne, sbattuti i tacchi per il saluto militare, ripete il prodigioso salto tornando … in patria. (Giovanni Lugaresi)
Giovanni Lugaresi è stato per un trentennio giornalita del Gazzettino, ma ha collaborato, e collabora tuttora, con varie testate. Periodicamente è ospite gradito di Monselice: presiede infatti dalla fondazione, nel 2007, il Premio letterario biennale promosso dalla Associazione culturale ‘Amici dei Musei – Accademia Monselicense. Scrittore e saggista, si è interessato in particolare dell’opera e della figura di Giovanni Guareschi, padre di Peppone e don Camillo. Nel ’91 ha vinto il Premio Guidarello di giornalismo e nel 2001 gli è stato assegnato il Premio Giornalista dell’anno dall’Associazione Nazionale Alpini. È dunque un innamorato di questo speciale corpo militare e l’ha dimostrato un paio di anni fa, in occasione della festa novembrina dedicata alle Forze Armate, quando nella chiesa di San Giacomo ha tenuto una ‘orazione’ cònsona alla sentita ricorrenza. Da quell’applaudito discorso estrapoliamo volentieri la parte iniziale, sapendo fra l’altro che è un nostro, anche se occasionale, buon lettore. In più dedichiamo questo spazio alla conclusiva commemorazione centenaria della Grande Guerra, il conflitto mondiale che ha visto la Città della Rocca diventare, dopo la tragedia di Caporetto, la piccola capitale euganea dell’apparato burocratico, ospitando a Lispida il re Vittorio Emanuele III, capo dell’esercito, e l’Intendenza della Terza Armata, comandata dal Duca d’Aosta e passata alla storia col soprannome di ‘Invitta’