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Intervista al Regista Marco Segato

Locandina del film "La pelle dell'orso"

Marco Segato Presenta “La Pelle dell’Orso”
un Film di Silenzi ed Atmosfere nel
Cuore della Montagna Veneta

La Pelle dell’Orso
Anni Cinquanta. In un villaggio nel cuore delle Dolomiti vivono Domenico, un ragazzino sveglio ma introverso, e il padre Pietro, un uomo consumato dalla solitudine e dal vino, che per campare lavora alle dipendenze di Crepaz. Il rapporto tra padre e figlio è aspro e difficile, i lunghi silenzi li hanno trasformati in due estranei. Una notte la tranquillità della valle viene minacciata dal diaol, il diavolo, un orso vecchio e feroce che ammazza una vacca dentro una stalla. La comunità è in preda a un terrore superstizioso e non ha la forza di reagire. Una sera all’osteria in uno scatto d’orgoglio, Pietro lancia una sfida a Crepaz: ammazzerà l’orso in cambio di denaro. La sfida viene raccolta tra le risate e lo scetticismo generale. È l’occasione che Pietro aspettava da tempo, il mattino dopo, senza dir nulla a nessuno parte per la caccia. Domenico lo viene a sapere e decide di seguirlo. A sua volta abbandonerà la sicurezza del paese per avventurarsi verso l’ignoto. Padre e figlio si immergono nei boschi, sempre più a fondo, fino ad esserne inevitabilmente trasformati. A poco a poco si riavvicinano, si riconoscono e il muro che li separava si sgretola nell’immensità della natura.

Come ti sei avvicinato al cinema e qual’è stato il tuo percorso artistico?
Ho scoperto il cinema durante l’adolescenza grazie ad alcuni film di formazione. A quei tempi ero un appassionato di letteratura ma lo consideravo solamente un hobby, dopo il liceo infatti mi ero iscritto alla facoltà universitaria di Biologia, ma da subito ho cominciato a frequentare “abusivamente” delle lezioni di storia del cinema. Non avevo ancora l’idea di realizzare film, ma desideravo seguire un percorso che mi piaceva. Da qui ho cominciato a realizzare dei documentari e quando mi sono laureato al Dams mi sono iscritto alla scuola di cinema documentario di Milano. Ho intrapreso la strada del fare cinema invece che dello scriverne e parlarne ed in parallelo mi sono occupato della realizzazione di rassegne cinematografiche, come quella fatta a Teolo negli anni ‘90. Poi ho lavorato al CUC di Padova, ho ideato dei corsi di cinema a Monselice e Montagnana dove ho conosciuto un gruppo di persone con cui è poi nata l’esperienza di Euganea Film Festival e Detour Film Festival. Insomma, un percorso di incontri giusti. Nel corso degli anni ho continuato a fare documentari e cortometraggi, a collaborare con Jolefilm, per arrivare oggi a presentare il mio primo film come regista.

Da 10 anni sei il direttore artistico di Euganea Film Festival, come hai vissuto questa esperienza?
Ho deciso di restare nel mio territorio e di non migrare in grandi città. Una scelta coraggiosa, maturata a livello cinematografico grazie all’incontro con Francesco Bonsembiante e Marco Paolini, con la Jolefilm e naturalmente con Carlo Mazzacurati. Queste personalità mi sono state di esempio e mi hanno convito che “si può fare del buono anche restando qui”. E poi lo stesso incontro con il gruppo Euganea Film mi ha trattenuto, un’esperienza riuscita grazie al tempo e alla passione delle persone che la tengono viva. Ci abbiamo investito in tanti e tanto, siamo partiti da zero e dalla zona della provincia, perchè la provincia è viva, una risorsa di energia più forte della città. I Colli Euganei hanno un potenziale immenso da sfruttare e anche in base all’esperienza maturata con Brunello e Paolini (che hanno deciso di portare il proprio lavoro al di fuori di luoghi canonici) abbiamo scelto di portare il cinema in luoghi che potessero amplificarne le emozioni e dare il modo di ripensare il territorio.

Qual’è il tuo rapporto con i Colli Euganei?
Sono molto legato ai Colli, sono un mio luogo dell’infanzia e dell’adolescenza e mi riportano a dei momenti cruciali della mia vita. Come la rampa dei deltaplani al Monte della Madonna, in cui dopo una giornata di studi andavo a vedere il tramonto o il Parco delle Fiorine dove ho passato tante giornate con gli amici o ancora la Biblioteca di Praglia dove ho preparato gli esami di storia, creando un cortocircuito tra quello che studiavo e quello che avevo intorno. Mi piacciono i Colli perché mantengono una distanza dalla città, ti puoi alzare dalla pianura piena di inquinamento ed avere uno sguardo oltre.

Pensi che il territorio euganeo possa essere la location adatta per il set di un film?
Nel corso degli anni sono stati girati dei film importanti, come “La lingua del santo” di Mazzacurati. Da un po’ di anni ho l’idea di realizzare un documentario sui Colli Euganei, non propriamente incentrato sulla natura, ma sulle “sacche di resistenza umana” che popolano i colli, persone e storie che convivono con difficoltà ma anche con coraggio con un ambiente naturale fortemente antropizzato

Marco Paolini nel film la Pelle dell'Orso

Ma ora parliamo del tuo meraviglioso film “La pelle dell’orso”, come è nata l’idea della tua opera prima?
Il film si ispira al libro di Marco Righetto, mio compagno di Università. È stato lui a regalarmi il libro e dopo averlo letto mi è subito nata l’idea di fare un film di silenzi, con pochi dialoghi e pochi attori, ambientato nelle montagne venete. Ho scelto il Veneto perché mi piaceva l’idea di restare nel mio territorio, i paesaggi sono molto più “selvaggi” e sicuramente per una serie di elementi produttivi che avrebbero reso più interessante lavorare in questa regione. Questa scelta però c’era già nel libro. Mentre leggevo il libro mi immaginavo Paolini nel ruolo di protagonista. Lavoro da molti anni con la Jolefilm e quindi è stata un’associazione naturale. Dato che ho lavorato con lui in alcuni video di suoi spettacoli conoscevo bene la mimica di Marco, le sue espressioni facciali e corporee. Poi lui ama la montagna, è una persona di poche parole ed un personaggio come il protagonista del film sapevo che gli sarebbe piaciuto. Marco è molto attento alla sua immagine, è stato molto coraggioso e generoso nei miei confronti, si è messo nelle mie mani… e spero che alla fine questo lo ripaghi. La pelle dell’orso ha ottenuto tre premi al festival Annecy Cinema Italien, è un ottimo inizio! Ci sono voluti circa 3 anni per realizzare il film, le riprese invece sono durate 2 mesi (da fine maggio a luglio 2015). È stato un sogno maturato e finché non vedi il tuo film visto da altri non sai se funziona o meno. Le proiezioni francesi sono state le prime ad incrociare il pubblico. Io sapevo tutti i limiti del film, perché il montaggio ti porta a smontare e rimontare il film e non sapevo se alcune cose che avevo costruito sarebbero arrivate anche al pubblico. Ad Annecy il pubblico e le giurie sono state entusiaste ed abbiamo capito che il film funzionava. Il pregio più grande de “La pelle dell’orso” è che è arrivato sia al pubblico sia agli “addetti ai lavori” della giuria.

Quali sono state le reazioni del pubblico alle presentazioni del film?
Nelle proiezioni ti accorgi che il film tocca delle emozioni profonde. Piace al grande pubblico, ed una parte del merito credo sia l’onestà di fondo del film, l’onestà che arriva dritta e forte, anche a chi frequenta poco il cinema.

Il film è tratto dal libro di Matteo Righetto, quanto del romanzo c’è nel film?
Il film è molto diverso dal libro, abbiamo aggiunto e tolto personaggi e soprattutto abbiamo stravolto il finale. Un grande lavoro di riscrittura, fatto anche con Paolini.

Riprese del film la Pelle dell'Orso

Quali sono stati i tuoi riferimenti personali e cinematografici quando hai diretto questa tua opera prima?
Ci sono delle componenti narrative molto presenti: amo la letteratura Americana di formazione e di avventura e condivido anche con Paolini queste letture. Ma c’è anche un immaginario più vicino a noi come Rigoni Stern. Da un punto di vista cinematografico ci sono elementi che appartengono al western: ci sono due personaggi che si muovono in scenari naturali molto forti, c’è un nemico e ci sono dei fucili. Anche se poi i riferimenti sono al cinema di formazione, come l’animale visto come simbolo, cioè portatore di sentimenti e paure.

Come ci si relaziona a dirigere un orso in un set cinematografico?
Le scene con l’orso sono durate una settimana, sono state le più difficili e complicate. Sei sempre in balia dei tempi e degli umori dell’orso, era lui che dettava le modalità di ripresa. La scelta di regia era di rendere la presenza dell’orso molto vera e naturale, anche senza farla vedere troppo. Volevamo che la sua presenza fosse molto in empatia con il ragazzino e quindi con la figura in cui lo spettatore si identifica. Abbiamo usato degli effetti speciali per rendere meglio alcune scene (come sangue, colpi, etc) ed in fase di post produzione in alcune scene sono state cancellate le recinzioni che contenevano l’orso sul set. Un lavoro lungo e complicato, ma divertente ed emozionante.

Come avete scelto la location e gli attori?
La valle in cui girare il film l’abbiamo scelta in accordo con Paolini. Fornesighe era davvero il luogo ideale. La costumista e lo scenografo hanno fatto un ottimo lavoro recuperando attrezzi, vestiti ed oggetti antichi direttamente dalle case degli abitanti. Questi ultimi sono stati felicissimi di partecipare alla realizzazione del film. Ora hanno “qualcosa” che racconta la loro valle e questo ha riattivato un orgoglio e una consapevolezza molto importante per un luogo un poco depresso e con scarso turismo.

Attori nel film La Pelle dell'Orso

Quanto è stato difficile dirigere Marco Paolini nel suo primo ruolo da protagonista?
La direzione degli attori è un esperienza nuova e delicata per chi come me arriva dal documentario. Con Marco è stato più facile girare perché avevamo costruito il personaggio assieme e ci davamo delle indicazioni chiare. Leonardo invece non aveva mai recitato ma c’era Mirko Artuso che gli faceva da maestro e gli ha dato dei trucchi del mestiere per capire come muoversi. Poi ti affidi all’immagine e alla tua esperienza, è l’attore che in un film di questo genere deve tirare fuori le emozioni.

Una tua nota personale sul film?
È un film intimo, essenziale, che osserva gli stati d’animo dei personaggi, una fiaba nera ancorata alla realtà, dove il realismo della vicenda viene spinto al limite fino a sfiorare il fantastico. Come per l’orso, elemento quasi soprannaturale, che nella storia incarna tutte le paure più ancestrali. Il bosco quindi è il luogo centrale dello scontroincontro tra padre e figlio. Qui è la natura ad imporre le proprie regole e gli uomini sono costretti a rispettarle.

Il Regista Marco Segato

MARCO SEGATO
nato e cresciuto a Treponti di Teolo, è laureato in Lettere all’Università di Padova con una tesi su Martin Scorsese e ha frequentato il master di documentario presso la Scuola Civica di Cinema di Milano. Nel 2007 è stato assistente alla regia al film di Carlo Mazzacurati La giusta distanza. Per Jolefilm, casa di produzione con cui collabora da alcuni anni, ha realizzato nel 2007 il documentario Ci resta il nome con Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto, Marco Paolini, Daniel Libeskind e nel 2008 il documentario Via Anelli. Lo stesso anno ha curato la regia video de Il sergente di Marco Paolini, e nel 2009 quella di Pensavo fosse Bach, concerto-spettacolo di Mario Brunello. Nel 2011 ha realizzato il film documentario Ora si ferma il vento e nel 2012 L’uomo che amava il cinema, presentato alle Giornate degli autori – 69. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Collabora con l´Università IUAV di Venezia e cura la direzione artistica di Euganea Film Festival e di Detour, festival del cinema di viaggio.

Giada Zandonà